Generalmente la sindrome dell’intestino irritabile (o irritable bowel syndrome, IBS) è considerata un disturbo funzionale, in cui gli esami diagnostici non consentono di evidenziare alcuna alterazione organica. I pazienti che soffrono di IBS non presentano infatti alcuna lesione o anomalia, cui sia possibile ricondurre i loro sintomi. La diagnosi del colon irritabile è quindi rimessa alla sola valutazione dei disturbi riferiti dai pazienti. Si tratta, cioè, di stabilire se i loro sintomi siano compatibili con i criteri clinici utilizzati per la diagnosi dell’IBS. Tuttavia le manifestazioni del colon irritabile possono essere comuni anche ad altre patologie. Nell’approccio diagnostico non è quindi sufficiente stabilire se i sintomi del paziente corrispondano a quelli della sindrome del colon irritabile, ma è necessario valutare la presenza di eventuali segni d’allarme e condurre alcuni esami mirati per escludere la presenza di altre patologie.
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Colon irritabile: criteri per la diagnosi
Generalmente la diagnosi del colon irritabile avviene sulla base dei criteri di Roma IV, stabiliti da una commissione internazionale di esperti, che ha fissato i criteri per la diagnosi dei disturbi gastrointestinali funzionali.
I criteri di Roma1 per l’IBS richiedono la presenza di dolore addominale, per almeno 1 giorno a settimana, in associazione a due o più delle seguenti condizioni:
- il dolore è collegato alla defecazione;
- il dolore si associa a un cambiamento nella frequenza delle evacuazioni;
- il dolore si associa a un cambiamento nella consistenza delle feci.
I sintomi previsti dai criteri di Roma devono essersi manifestati durante gli ultimi 3 mesi, con un esordio dei disturbi almeno 6 mesi prima della diagnosi.
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I sottotipi della sindrome dell’intestino irritabile
La sindrome dell’intestino irritabile può assumere forme diverse. Generalmente il suo sintomo principale è il dolore addominale, diffuso o localizzato nel basso ventre, che può accompagnarsi a gonfiore e variare con l’evacuazione. Tuttavia il dolore può associarsi a sintomi opposti, come la stipsi e la diarrea. È possibile distinguere, infatti, due diversi sotto-tipi di intestino irritabile: l’IBS con predominanza di costipazione (IBS-C) e l’IBS con predominanza diarroica (IBS-D). Il criterio diagnostico utilizzato per distinguere tra le diverse varianti è la consistenza delle feci, misurata attraverso la scala di Bristol (vedi fig. 1).
La scala di Bristol individua sette diversi tipi di feci, che variano, in base alla consistenza, dal tipo più duro a quello più liquido. Il tipo 1, ad esempio, rappresenta le feci più dure, di tipo caprino o a palline, caratteristiche della stipsi. Il tipo 7 descrive invece le feci più liquide, di tipo acquoso, caratteristiche della diarrea.
Fig. 1 – fonte: Wikimedia Commons
In particolare, i criteri di Roma IV prevedono che nell’IBS con predominanza di stipsi i movimenti intestinali siano caratterizzati solitamente da feci di tipo 1 o 2 (>25%) e solo residualmente (<25%) da quelle di tipo 6 o 7. Nel caso dell’IBS con predominanza diarroica, i movimenti intestinali sono invece caratterizzati solitamente da feci di tipo 6 o 7 (>25%) e solo minoritariamente (<25%) da quelle di tipo 1 o 2. In altre parole, nell’IBS-C il paziente riferisce stipsi, con feci generalmente dure, a palline o a forma di salsiccia. Nell’IBS-D, invece, il paziente riferisce diarrea, con feci di solito molli o acquose.
Va notato, inoltre, che in alcuni pazienti la sindrome dell’intestino irritabile può assumere una forma mista (IBS-M), in cui il paziente alterna stipsi e diarrea. In particolare, i movimenti intestinali sono caratterizzati sia da feci di tipo 6 o 7 (>25%), sia da quelle di tipo 1 o 2 (>25%).
Infine, la sindrome dell’intestino irritabile può non essere classificabile (IBS-U), qualora non sia possibile stabilire accuratamente a quale tipo di IBS il paziente appartenga. Il soggetto, infatti, pur soddisfacendo i criteri di Roma per la diagnosi del colon irritabile, può non presentare alterazioni significative nella consistenza delle feci. In questo caso diarrea e stipsi sono entrambe rare.
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I segni d’allarme
Uno dei limiti principali di una diagnosi fatta sulla sola base dell’osservazione dei sintomi è che, quest’ultimi, possono rinviare a più di una patologia. Nella diagnosi del colon irritabile è quindi necessario escludere la presenza di eventuali segni d’allarme2–3, come:
- involontaria perdita di peso;
- diarrea notturna;
- sudorazione notturna;
- febbre;
- tenesmo rettale;
- ematochezia (feci miste a sangue di colore rosso vivo);
- melena (feci di colore molto scuro, catramose, per la presenza di sangue digerito);
- elevata frequenza di evacuazione;
- stipsi ostinata;
- segni di malnutrizione;
- esordio dei sintomi oltre i 50 anni;
- storia familiare di malattie gastrointestinali come la neoplasia del colon-retto e le malattie infiammatorie intestinali (IBD).
La presenza dei sintomi d’allarme richiede ulteriori approfondimenti diagnostici. È consigliabile, ad esempio, effettuare l’esame della colonscopia, con biopsia sia del colon destro che sinistro. Quest’esame, infatti, permette di escludere la presenza di alcune patologie organiche, come il cancro del colon retto, le malattie infiammatorie croniche dell’intestino, o la colite microscopica. Tuttavia, in assenza dei segni d’allarme, la diagnosi dell’IBS può basarsi sull’anamnesi clinica, finalizzata alla valutazione dei sintomi, e su alcuni semplici esami diagnostici, in grado di escludere quei disturbi che possono essere scambiati per l’IBS.
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Colon irritabile: gli esami da fare
Esami del sangue
Innanzitutto è raccomandabile effettuare l’emocromo completo, che fornisce importanti informazioni sulle cellule circolanti nel sangue, come i globuli bianchi, i globuli rossi e le piastrine. Eventuali anomalie nei loro valori, come condizioni di anemia o leucocitosi4, possono suggerire la presenza di patologie organiche gastrointestinali e richiedono pertanto ulteriori approfondimenti diagnostici.
La misurazione della proteina C reattiva (PCR) è invece raccomandata per escludere eventuali malattie infiammatorie intestinali (IBD). La PCR, infatti, è una proteina rilasciata dal fegato nel circolo sanguigno a seguito d’infiammazione. Il suo dosaggio permette quindi di rilevare un’eventuale condizione infiammatoria, come quella causata dall’IBD. In particolare, un livello di PCR ≤0,5 mg/dl consente di escludere la presenza di malattia infiammatoria intestinale nei pazienti con sintomi da IBS5.
Un ulteriore esame ematochimico da fare è quello per la celiachia, soprattutto se i pazienti hanno avuto risultati insoddisfacenti con la terapia iniziale6. Diversi studi hanno infatti mostrato una maggiore prevalenza della celiachia tra i pazienti con sintomi suggestivi di IBS rispetto ai soggetti sani. Gli esami del sangue per la celiachia, come la transglutaminasi tissutale dell’immunoglobulina A (IgA) e i livelli quantitativi di IgA, sono quindi utili per escludere che i sintomi lamentati dal paziente siano in realtà dovuti alla malattia celiaca.
Infine gli esami del sangue per la tiroide, come il dosaggio del TSH, possono evidenziare condizioni di ipotiroidismo o ipertiroidismo. Entrambi i disturbi possono a loro volta associarsi ad alterazioni dell’alvo, causando, rispettivamente, stipsi o diarrea. Per questa ragione, qualora sia clinicamente indicato, è consigliabile effettuare il dosaggio del TSH nei pazienti che riferiscono sintomi da IBS.
Esame della calprotectina fecale
Il test della calprotectina fecale è un esame che consente di diagnosticare e monitorare le malattie infiammatorie intestinali, come il morbo di Crohn e la rettocolite ulcerosa. La calprotectina, infatti, viene rilasciata dai globuli bianchi nell’intestino in caso di processi infiammatori. Una sua aumentata concentrazione nelle feci è quindi un utile marker d’infiammazione, che si rileva solitamente nell’IBD. In particolare una sua concentrazione inferiore a 50 mcg/mg consente di escludere con ragionevole probabilità la presenza di malattia infiammatoria intestinale7. Tuttavia, eventuali valori positivi della calprotectina non sono sufficienti per sé a fare diagnosi di IBD, ma suggeriscono la necessità di ulteriori approfondimenti.
Esame per il malassorbimento degli acidi biliari
Una condizione spesso fraintesa per IBS con predominanza diarroica (IBS-D) è la diarrea da malassorbimento degli acidi biliari (BAD). Si tratta della malattia organica accertata più frequentemente tra i pazienti che soddisfano i criteri la diagnosi di IBS-D8. I suoi sintomi principali, infatti, sono la diarrea e l’urgenza evacuativa, cui possono associarsi il dolore addominale e l’incontinenza.
Generalmente la diagnosi della diarrea da acidi biliari avviene attraverso il SeHCAT test, un esame di imaging nucleare, che valuta il riassorbimento a livello ileale degli acidi biliari. Va notato, tuttavia, che l’esame ha costi elevati e una scarsa diffusione. Nella prassi diagnostica può quindi essere preferibile somministrare direttamente un farmaco sequestrante degli acidi biliari (ad es. la colestiramina) e valutare se il suo utilizzo porti o meno a un miglioramento dei sintomi del paziente.
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Conclusioni
La diagnosi del colon irritabile avviene attraverso la valutazione dei sintomi del paziente sulla base dei criteri di Roma per l’IBS. Tuttavia durante la diagnosi è necessario escludere eventuali sintomi di allarme e la presenza di altri disturbi, eseguendo semplici esami diagnostici.
Gli esami raccomandati9 sono l’emocromo completo, la PCR, la sierologia per celiachia e il test per la calprotectina fecale. In caso di sintomi persistenti, gravi o refrattari alle terapie, è raccomandabile eseguire ulteriori accertamenti. In particolare, la colonscopia è raccomandata nei pazienti di età superiore ai 50 anni e in presenza di sintomi di allarme e/o di risultati anomali degli esami di routine. È inoltre raccomandato il test SeHCAT, o di altri biomarcatori, per escludere la diarrea da acidi biliari.
Va notato, infine, che allo stato attuale non è possibile raccomandare l’utilizzo di ulteriori esami, come i test del respiro per il malassorbimento dei carboidrati, gli esami diagnostici per la SIBO, il test del microbiota (ancora in fase di studio per comprendere la complessa relazione tra IBS e disbiosi intestinale) e l’analisi delle feci per le infezioni enteriche. L’evidenza scientifica, infatti, non ha mostrato una loro significativa utilità nel processo di diagnosi o nella gestione dei sintomi del colon irritabile.